Bidoni del calcio: "Caraballo? Meglio perderlo che trovarlo"

Nel 1982 il Pisa torna in Serie A e presenta l'uruguagio come un "Caravaggio del pallone": sarà uno scivolone assurdo

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Certe storie semplicemente non si spiegano. Travalicano il calcio per infilarsi con disinvoltura nella commedia. Una sceneggiatura che ruota attorno ad un nome che a Pisa suscita ancora vampate di mistero e ilarità: Jorge Washington Larrosa Caraballo, l’uomo che doveva essere il nuovo Schiaffino e che divenne, invece, il peggior errore di valutazione della storia nerazzurra. Un meteorite planato in Serie A, sbriciolatosi ancor prima di toccare terra.

Cosa ci fa un carneade uruguaiano in una squadra appena tornata in A dopo tredici anni? Facciamo un passo indietro. È il 1982, l’Italia festeggia ancora il Mundial, Pisa è in fermento per il ritorno tra i grandi, e Romeo Anconetani, il presidentissimo, fiuta l’aria giusta per osare. Berggreen, il danese, è la scommessa seria. Ma poi arriva l’altra metà della mela. Ed è marcia. A pensarci bene, non fu neppure un acquisto di Romeo. No, Caraballo è il colpo – si fa per dire – del figlio Adolfo, che all’epoca, per questioni paterne improrogabili, si trova da solo a Montevideo. In mano ha un dossier su Francescoli, ma la storia prende una piega surreale.

Taxi, rasoi, visioni e fraintendimenti. Su come Adolfo sia finito a puntare tutto su Caraballo si sprecano le versioni: i consigli di un tassista, di un barbiere, un pranzo di troppo. La sostanza resta univoca: invece del Principe, torna in Italia con un mediano anonimo del Danubio, convinto d’aver pescato un gioiello. All’aeroporto di Pisa, la folla in delirio – siamo pur sempre a pochi giorni dalla finale del Bernabeu – lo accoglie come un Messia. E lui non ci pensa due volte: si autodefinisce “il nuovo Schiaffino”, annuncia che chiamerà la figlia “Vittoria” in onore del Pisa, e promette battaglia, garra uruguayana.

In realtà, di “battagliero” Caraballo ha soltanto lo sguardo nella foto di presentazione. In campo è un ectoplasma compassato, dal passo lento e l’anima persa. Il tecnico Vinicio, uomo di mondo, lo inquadra al primo tocco. Non serve neppure gridare: “Fuori”. Ma la storia, com’è noto, non è fatta soltanto di moduli e prestazioni: servono anche caricature e piccoli drammi. E Caraballo è perfetto per il ruolo.

Dopo le prime apparizioni confuse, il ragazzo crolla. Una volta – raccontano i compagni – si mette a piangere dopo essere stato sostituito a fine primo tempo. “Non mi capite!”, urlava. E come dargli torto? L’Italia del pallone non era pronta per un centrocampista timido che faceva panchina persino in Primavera. Durante una nevicata nel ritiro a Volterra, gli lanciano palle di neve: risponde finendo nel panico. Il soprannome che ne uscì – "quello è come Caraballo: meglio perderlo che trovarlo" – divenne proverbiale nei bar della città.

Ma il colmo arriva in Coppa Italia. Pisa-Bologna, 0-0. Minuti finali. Rigore per i nerazzurri. Caraballo si fa avanti, occhi da condottiero. Vinicio, forse commosso, lo lascia fare. E lui spara una bomba in curva. Risate, sconcerto, e applausi sarcastici. Fine della favola. Anzi, no: pochi giorni dopo tenta una rovesciata da centrocampo, cade rovinosamente e si infortuna da solo. Sostituzione immediata. Il pubblico stavolta non ride: lo compatisce.

Poi, la scomparsa. Una mattina il Pisa rientra da una trasferta, ma lui non si presenta all’allenamento. Nessuno riesce a contattarlo. I dirigenti vanno a casa sua. Trovano solo piccioni, conigli, e qualche gallina sul terrazzo. Lui? Sparito. Tornato in Sudamerica senza lasciare una parola, come se volesse cancellare con la fuga un capitolo imbarazzante della sua vita. Non tornerà più in Italia, né calcisticamente né mediaticamente.

La leggenda vuole che oggi faccia il tassista. Ironia perfetta: da un taxi cominciò la sua avventura europea, e forse in un taxi la sta concludendo. Alla fine, il Pisa senza Caraballo vola: undicesimo posto in classifica, miglior risultato della sua storia in Serie A.

Lui, invece, scompare nei tornei minori sudamericani, come un personaggio di una telenovela storta, che neppure l’ultima puntata riesce a riscattare. Ma in fondo, serve davvero un lieto fine per diventare una leggenda? Forse no.

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